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Pietro Bellasi

Pietro Bellasi

IL CAPITANO GULLIVER AGLI SPETTACOLI DEL CONFINE

«Ogni cultura risulta un modo violento di marchiare gli altri, di segnare i limiti tra noi e l’estraneo. Perché chi è fuori dai limiti d’una cultura, l’alieno, sembra appartenere alla natura brada come le bestie, dunque dovrà essere domato, marchiato o castrato come le bestie. Questo mi sembra il succo delle disavventure di Gulliver […].»

Gianni Celati, Introduzione, in
Jonathan Swift, I viaggi di Gulliver, Feltrinelli, 1997

«Si potrebbe indulgere a lungo […] sul modo in cui le morti in mare e per terra sono rappresentate, sulla specifica economia della visibilità e dell’invisibilità che costituisce quello che Nicholas De Genova ha definito “lo spettacolo del confine”. Ma resta il fatto che gli ultimi anni hanno registrato un’intensificazione senza precedenti del carattere letale di quelle che ho chiamato “lotte di confine”.»

Sandro Mezzadra, Terra e confini.
Metamorfosi di un solco, manifestolibri, 2016

«Dopo la caduta del Muro di Berlino, c’erano tedeschi dell’Est che rivolevano indietro la barriera, così come possono esserci neri americani che rivogliono il loro “muro”.
Perché il muro dà un certo conforto, la sensazione di essere speciali.»

Paul Beatty, Intervista
di Viviana Mazza, in “La Lettura”, 12 marzo 2017

Ancora una volta mi confermo nella convinzione della coraggiosa, anzi temeraria, anzi spericolata genialità di Jonathan Swift che, armato di un cinismo ecclesiastico affilato alla più estrema, quasi crudele lucidità, narra nel Gulliver una sorta di viaggio dantesco “in terre lontane”, nei gironi della relatività. Laddove per primi “il più piccolo” e “il più grande” (Lilliput e Brobdingnag) ne sono la metafora più nota, approdata abbondantemente sulle pagine dei libri per ragazzi; fiaba geografica filtrata dai virus del dubbio1. «Davvero hanno ragione i filosofi quando dicono che la grandezza e la piccolezza sono valori unicamente relativi: – scrive Swift – il destino avrebbe potuto benissimo far trovare ai Lillipuziani qualche nazione i cui abitanti fossero, in rapporto a loro, piccoli quanto lo erano loro per me; e chissà se anche questa gigantesca razza di mortali (di Brobdingnag) non possa essere battuta a sua volta in qualche lontana contrada non ancora scoperta?». Dunque un itinerario immaginario, anzi “fantastico” di relativismo culturale spietato, ma forse unico tentativo plausibile di ricerca di un relazionismo tollerante, capace almeno di indebolire i “sistemi di crudeltà” ingenerati e retti dagli assiomi di quanto chiamiamo “l’identità”. In nessun altro libro – sostiene Gianni Celati nella sua bella introduzione a I viaggi di Gulliver nella edizione del 1997 – la scienza delle comunità dei sapienti viene collegata così inequivocabilmente alle “forme universali dell’etnocentrismo”: «[…] perché nella scienza dei dotti i valori differenziali diventano modi del pregiudizio etnico che decide l’identità dell’individuo; sicché i luoghi comuni d’ogni cultura rappresentano i criteri ultimi per distinguere gli individui umani dal resto delle creature sensitive»2. E i “luoghi comuni” vengono spacciati e si impongono come leggi di natura; «le quali però sono giudizi a priori, abitudini di pensiero per discriminare l’indigeno dall’estraneo». Allora Gulliver è un vero eroe che si abbandona alla grande, terribile esplorazione del relativismo culturale: «Per cui il passaggio da un regime di abitudini all’altro corrisponde sempre a un lavaggio del cervello; e Gulliver non fa che subire lavaggi del cervello passando da un paese all’altro e adeguandosi a sempre nuove situazioni»3. Gli assiomi identitari fanno dell’Uomo l’alieno dell’umanità; ma spesso l’isolamento e i suoi sempre sanguinanti, anzi “fiammeggianti” confini (per riprendere un’espressione cara ai teorici nazisti) costituiscono elemento di una micidiale securizzazione autistica. Del resto né i machiavellici lillipuziani, né i cinici abitanti di Brobdingnag, né gli altezzosi scienziati e intellettuali di Laputa sanno minimamente e neppure concepiscono che oltre i limiti dei loro mondi vi sia un qualche “altrove”, una qualche altra esistenza plausibile. E questo, sorprendentemente, è vero anche per i così saggi esseri incontrati nell’ultimo viaggio, gli Houyhnhnms, cavalli sommamente raziocinanti e parlanti, che non conoscono la contrapposizione di vero e falso o il concetto di violenza, né la pratica della guerra.

 

Gli unici “indigeni” di cui Gulliver, al ritorno in patria, avrà tanta nostalgia, da ricercarne l’odore andando a vivere nella propria stalla, pur di sfuggire a quello nauseabondo dei suoi simili.

Forse l’idea più estrema del confine e dei suoi rapporti funzionali con il dominio e la sua costitutiva e crudele ottusità, ancora per Swift, è rappresentata dall’isola volante di Laputa che si libra al di sopra dei suoi possedimenti (territori e sudditi); abitata e governata da una casta di scienziati tecnocrati totalmente votati a studi, riflessioni e ricerche assurde, irrealizzabili, del tutto estranee ai problemi dell’esistenza quotidiana. Sacerdoti di una scienza che avrebbe entusiasmato il nostro Alfred Jarry e il Dottor Faustroll con la sua Patafisica. I confini, in questo caso meta-geologici di Laputa, con la loro linea di galleggiamento magnetico nello spazio, circoscrivono e proteggono il territorio di una “ideologia” che tende a imporsi con la sua astratta, esaustiva, esclusiva e autistica “perfezione” formale, alla libertà di quella caotica, effimera, disarmonica informalità esperita dalla esistenza vissuta. E, tra tanti altri possibili esempi storici, vengono in mente, per il loro carattere “aereo” e la evidente simbologia di dominio esclusivo, le “cattedrali di luce” di Albert Speer; le più famose, quelle della Tribuna Zeppelin a Norimberga e quella dell’Olympiastadion di Berlino per le Olimpiadi del 1936. Centinaia di riflettori antiaerei orientati allo zenit tracciano e scavano un vero solco di confine e di “fondazione” perforando la densa e indefinita oscurità della notte; edificano anche un muro di contenimento delle tenebre e dei loro messaggi inquietanti di un caos cosmico enigmatico e incontrollabile. All’interno delle navate di luce, il guscio di una ideologia con i suoi miti, le sue mitologie, i suoi schemi e artifici di omogeneità, di compattezze, di simmetrie, di megalizzazioni monumentali. Del resto, proprio la monumentalizzazione degli spazi operata a tutt’oggi dalle piccole o grandi Weltanschauung più o meno assassine, e praticata maniacalmente dal pensiero totalitario (terrorizzato inconsciamente, ma per sua stessa natura, dal “caduco”), risponde alla esigenza tutta simbolica di addomesticare l’anarchica libertà dello spazio fisico confinandolo in una sorta di “tettonica ideologica”; laddove quasi sempre i monumenti, destinati a suscitare un forte coinvolgimento emotivo, grazie a una perentoria evidenza simbolica fatta di immediatezze comunicative, si ispirano e utilizzano una varietà di stili genericamente detti “realistici”; che io chiamerei piuttosto “segnaletici” per la loro ovvietà significante, platealmente anermeneutica e normativa, simile a quella della segnaletica stradale.

In tutto questo insinuiamo (come esempio quasi casuale, ma pure come intrigante “colophon del dubbio”) la spiazzante intervista di Viviana Mazza allo scrittore americano Paul Beatty, pubblicata su un numero recente de “La Lettura” che ho citato qui in epigrafe4. È un contributo a evidenziare le ambiguità e le equivocità di termini e di concetti storici e immaginari proprio come frontiera, confine (e confino), limite, muro, recinzione… la Mazza riporta il desiderio di Charles Stone, il misterioso musicista nero, di «costruire muri e abbattere ponti […] ricostruire il Muro di Berlino per aiutare i tedeschi che non sanno più chi sono»5. Dunque una scoraggiante complessità del tema che ha riempito biblioteche. Allora ci affidiamo a Sandro Mezzadra che ci aiuta con un libretto snello ma essenziale, nel quale con rara e limpida
completezza ci illustra gli elementi-cardine di questo densissimo argomento6. «Tanto dai “confini esterni” (da Idomeni a Lesbo) quanto dai “confini interni” che si sono moltiplicati in Europa (dalle stazioni di molte metropoli a Calais) continuano a giungere immagini eloquenti della violenza del confine e dei suoi guardiani»7. Una continuità insanguinata di sofferenza e di eccidi sembra legare la “violenza della fondazione” del solco primigenio alle odierne “lotte di confine”; “gli spettacoli dei confini”, come li chiama Nicholas De Genova, dove identità fluide e ibride si incontrano e si scontrano con le comparse di effimere e proterve rinazionalizzazioni. Credo dunque si possa dire che i confini (divenuti quasi sempre “frontiere”) hanno sempre costituito, in svariate modalità, i catalizzatori più efficienti della umana aggressività, i “rivelatori” delle più violente pulsioni inconsce nascoste sotto l’ipocrisia di solenni dichiarazioni, trattati, armistizi, intese, “Paci”. Anche le epopee delle “Nuove Frontiere” nascondono genocidi e razzie alla trucida ricerca di “spazi vitali”. Oggi i processi di globalizzazione che ingenerano una generale deterritorializzazione dei confini e una loro dislocazione dai margini ai centri dei vecchi spazi nazionali, accendono e incrementano nuove e dolorosissime “lotte di confine” permanentemente attizzate dai flussi migratori. Cosicché ancora una volta, anche se con modalità totalmente nuove, i confini-frontiera irrompono pure nella quotidianità come luoghi privilegiati di interrogazione esistenziale di una umanità spietatamente penetrata nelle torbide profondità del suo inconscio. E ricordano, anche se di riflesso, un altro solco doloroso, un’altra frontiera tormentata, quella “ferita narcisistica” inferta dalla modernità alla prepotente sovranità dell’Io con la scoperta dell’Es, delle sue congiure e dei suoi agguati.

Mi pare evidente che una interrogazione esistenziale così drammatica non si era presentata nella Storia dai tempi, del resto assai recenti, della bomba atomica e della minaccia nucleare.

Allora tanti artisti, operatori di una riflessione, di un “lavoro”, di una ricerca per vocazione essenziale di permanente contrabbando e attraversamento spesso clandestino di frontiere, ben consapevoli del nesso ineludibile di estetica ed etica non si peritarono di dichiararsi energicamente “impegnati”.

Da qui, Violenti confini presenta alcune potenti congetture sulla plausibilità storica ed esistenziale di un nuovo impegno, oggi necessariamente e drammaticamente definibile umanistico della attività artistica, dentro i turbini della globalizzazione. E ciò, dovendo sicuramente superare le claustrofobie di un “sistema-arte”, massicciamente e capillarmente mercificato e incantato da uno stremato snobismo di “trovate” e divertissements post-post-dada.

Ma di qualsiasi impegno si potrà trattare, si renderà a ogni modo necessario un difficile, rischioso viaggio gulliveriano postumo agli “spettacoli del confine”.

Note

1. Rimando, su questo argomento specifico, a due miei saggi: P. Bellasi, Lilliput et Brobdingnag. Métaphores de l’imaginaire miniaturisant et mégalisant, in AA. VV., Le gigantesque, in “Communications”, n. 42, Seuil, Parigi 1985, pp. 229-244; P. Bellasi, Metaphern des miniaturisierenden und megalisierenden Imaginären, in Kamper D., Wulf C. (a cura di), Anthropologie nach dem Tode des Menschen, Surkamp, Francoforte sul Meno 1994, pp. 44-62.
2. G. Celati, Introduzione, in J. Swift, I viaggi di Gulliver in vari paesi lontani del mondo, Feltrinelli, Milano 1997, p. XVI.
3. Ibidem, p. XV.
4. Mazza V. (a cura di), Il disagio di vivere senza muri, in “La Lettura”, domenica 12 marzo 2017, p. 17.
5. Ibidem.
6. S. Mezzadra, Terra e confini. Metamorfosi di un solco, manifestolibri, Castel San Pietro Romano 2016.
7. Ibidem, pp. 45-46.

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Tratto da “Violenti Confini” ©2017 Magonza, Arezzo – Tutti i diritti riservati.

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